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Tra gli inferi di un paradiso

Ultimo Aggiornamento: 03/08/2009 15:38
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Sesso: Femminile
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03/08/2009 15:38

di PAOLO RUMIZ
Seconda notte di navigazione, traghetto Trapani-Pantelleria, grecale leggero con poche onde, una fregata italiana di pattuglia sul lato di Mazara. Nessuno direbbe che questo è un mare senza pace, percorso da clandestini, navi militari, contrabbandieri, pescherecci in guerra sul filo delle acque territoriali. Invece lo è. Anche sotto la superficie è tutto un sommovimento. Ribolle, erutta, sputa isole e crateri, inghiotte correnti e nasconde vulcani inquieti più del Tirreno. Nel 1831 di vulcani ne emerse uno, per alcuni giorni, in una strepitosa luminaria di fuoco che fu vista da decine di navi. Un vecchio libro di Angelo d'Aietti racconta la storia di quest'isola, la Ferdinandea, che "dopo effimera vita affondò, demolita dalle onde". Gli inglesi, "sempre avidi di dominio, furono sollecitati a occuparla simbolicamente piantandovi una bandiera", ma ne nacque un incidente diplomatico col regno delle Due Sicilie, finché "la scomparsa risolse seccamente la questione, giacché tutto finì in una secca".

Nel 1891, racconta sempre d'Aietti, toccò a Pantelleria, con un "preludio violentissimo fin dall'anno precedente, la rottura di una quarantina di cisterne e il sollevamento della costa nordest...". Un giorno le campane suonarono da sole "facendo sentire rintocchi di funerale", poi "il mare prese misteriosamente ad agitarsi e ribollire, e si gonfiò in una singolare escrescenza, nella quale taluni credettero di ravvisare un mostro marino di foggia sconosciuta. Poi l'escrescenza si distese, si modellò in una striscia di quasi un chilometro, dalla quale presero a venir fuori gran copia di fumo, sinistri bagliori di fiamma e terrificanti boati". Allora fu il gran finale, con "fantasmagorici bengala", pioggia di proiettili, "sfiato di anidride solforosa" e una "sarabanda infernale di tuoni e detonazioni". Il tutto si concluse di notte con "un gigantesco falò, che le dirimpettaie coste della Tunisia e della Sicilia ammirarono stupefatte". Uno "stupendo bengala" che gli isolani, affluiti alla chiesa madre, riuscirono a spegnere solo portando in processione le ossa di San Fortunato.

I panteschi sanno benissimo di stare su un cratere attivo - una bestia come Santorini che, esplodendo migliaia di anni fa, cambiò il clima del Mediterraneo e la storia della civiltà - ma ne parlano come di un amico bonario. Non è il vulcano ma il mare che fa loro paura. Quello ha portato solo disgrazie: tempeste, invasioni, naufragi, maremoti, incursioni saracene e turche. E poi a Pantelleria, come in Irlanda, il mare picchia sui faraglioni e non è raggiungibile quasi da nessuna parte. A differenza di Malta e Lampedusa, gli sbarchi sono impossibili un giorno su sette e il vento è tale che non arrivano nemmeno i barchini dei disperati e a volte gli aerei non osano atterrare. Per questo chi arriva sperando in un'isola stile Caraibi s'innervosisce dopo 10 minuti.

"Questo posto lo odi o lo ami perdutamente" dice con fierezza Giuseppe Bernardo, geologo che insegna al liceo locale e m'aspetta per andare sul cratere. Ed è davvero una malattia questo attaccamento alla montagna, al cappero, agli orti pieni di piccoli pomodori protetti dal vento con muri di lava nerastra coperta di licheni. Terrazzamenti con pesche e zibibbo, foreste di lecci, cisti e pini d'Aleppo, un profumato sottobosco di ginestra, erica e corbezzolo. Poi, dalla cima, la gran vista. Il bordo della caldera, vecchio di 114 mila anni; il cratere centrale detto Gibele, più basso delle lave che ha sparato intorno. La Montagna Grande, coronata da un'edicola votiva con i patroni San Fortunato e Maria della Màrgana. Ovunque i segni dell'ultima apocalisse, avvenuta cinquemila anni fa: lave verdi e dense dette Pantelleriti, piovute come su Pompei. Nascosta nel profondo, una camera magmatica in ebollizione, tenuta sotto controllo strumentale attraverso le sorgenti e le fumarole dell'isola.

A sud-sudovest la terra sfiata zolfo e dai canaloni del Gibele precipita una valanga di nubi lanuginose, spinte dal grecale. Il mestolo dei venti - qui Eolo ci dà dentro duecento giorni l'anno - si è messo in moto, e in ventiquattr'ore le raffiche cambieranno direzione sei volte. Levante, scirocco, maestro, libeccio, tramontana, poi di nuovo grecale. In una valletta solitaria, coperta da una nera ghiaietta che scricchiola sotto le pedule, il vapore solforoso esce da due buche rossastre coperte di graticci, formando volute. Bernardo salta come una capra tra i dirupi della sua Itaca e racconta. Fino a pochi anni fa i pastori intubavano i vapori della Favara Grande per raffreddarli e catturarne l'acqua in una vasca di pietra per dissetare le greggi. Poi venne il Consiglio nazionale delle ricerche, e la modernità tentò di imprigionare gli dèi per sfruttarne a scopo scientifico gli infernali vapori, ma la cosa fallì e oggi i tubi in eternit sono ancora lì nella sterpaglia, sporchi di zolfo, dimenticati.

Tante storie fosche. Naufragi davanti al faro ruggente di Punta Spadillo. Briganti traditi e catturati in una grotta del Monte Grande, per essere poi impiccati a Trapani. A Sud di Rakhale - che sarebbe la Casa di Alì - un nero faraglione ha preso il nome di Salto della vecchia, perché la più anziana dell'harem del sunnominato Alì si sarebbe buttata in mare da lassù dopo essere stata espulsa per l'arrivo di una nuova favorita. Il salto luccica di ossidiana, la risacca tuona sulla scogliera, il mare è un incendio di luce. Siamo nel centro del Mediterraneo, in bilico tra Africa, Italia e isole greche. Nelle buone giornate Cartagine è visibile a quaranta miglia. Il vento rinforza, il mare si gonfia, la vecchia di Alì ulula, in paese la gente ricomincia a chiedersi se il prossimo ferry da Trapani potrà attraccare. Alla tavernetta "Bice", vicino al molo, chiedo un panino di pomodori, capperi e olive. La cuoca frigge panelle e racconta: "Da bambina non capivo perché i miei si ostinassero a vivere qui. Poi sono andata nel Continente, ho mangiato un pomodorino e ho visto che non sapeva di niente. Così ho capito che dovevo restare". Teorema dei pomodorini: il gusto vale il rischio, il che funziona anche per la vita. Sublime ambivalenza di una Terra fertile e apportatrice di morte.
2. continua

(3 agosto 2009)

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